CHE COSA è SUCCESSO A BARNABY BROCKET?
John Boyne – ill. di Oliver Jeffers
Rizzoli, 2012
Barnaby Brocket nasce e subito fluttua. Non nel senso di Pimpi che spiega a Winnie Pooh che lui non pesa, ma flutta; il piccolo Barnaby va in senso contrario alla legge di gravità e come lo si lascia andare finisce sul soffitto. Per presentarlo a fratello e sorella, il loro papà usa lunghe frasi per dire che il nuovo arrivato in famiglia “è un po’ diverso da noi” e i bambini si chiedono se abbia due teste o la coda. Con la semplicità dei piccoli sanno semplicemente che è il loro fratello, mentre per otto anni i genitori lo tengono nascosto il più possibile finché decidono di lasciarlo andare, di tagliare i lacci del grande zaino che lo tiene assicurato a terra e di liberarsene (sì, esatto. Eliminarlo dalla loro vita). Comincia così un lungo viaggio intorno al mondo che altro non è che un catalogo di persone considerate e guardate come diverse: chi ha malformazioni fisiche, chi non corrisponde alle aspettative dei propri genitori, chi ha diverse inclinazioni sessuali, chi devia dai binari che la sua famiglia gli ha predisposto per la vita, chi sta per morire e ha deciso di concedersi una pausa dal quotidiano. Un elenco di “mostritudini”, una lista di imbarazzi da parte di chi guarda e incontra, un catalogo di storie (non sempre belle, spiega Charles con la sua faccia devastata dalle ustioni. “Ma se a te non dispiace raccontamelo” ribatte pronto Barnaby). Dove tra le altre cose ci sono Mr Cody che aveva stretto la mano a Roald Dahl, un viaggio in mongolfiera, una lunga coda in biblioteca per ascoltare il proprio scrittore preferito. E dove si dice che alcune persone non riescono ad accettare le cose di cui non hanno esperienza. Di come a volte pensi sia semplice accettare e fare come sempre e invece è il mondo intorno, col suo modo di guardare, i suoi stereotipi, i suoi parametri idioti, che ti rende tutto difficile.

Leggo questo libro e so benissimo dove Jeffers vuole andare a parare, dove mi sta portando. So che la storia è anche troppo scoperta e nuda e che probabilmente in altre situazioni, in altri testi mi darebbe fastidio pensare che l’autore sta ribadendo che ognuno è com’è e che la normalità è un’invenzione. Ma qui non mi dà fastidio. Forse perché è davvero leggera come una fiaba (e nuda come una fiaba nel senso di cruda; non edulcora certi particolari, non nasconde). O perché la leggerezza di Barnaby non è solo un fatto fisico; gli sta nello sguardo e in quel candore che lo fa scendere dal pero in alcune situazioni, quando gli altri strabuzzano gli occhi e lui capisce un secondo dopo. Non perché sia tardo, ma perché a certe cose non presta attenzione. E non per incuria, ma perché sono così (sono la loro realtà, direbbe lui) e la sua curiosità è solo quella di chi sa ascoltare. A me ricorda il piccolo Bertie di McCall Smith (44 Scotland Street, Guanda) che vorrebbe solo essere se stesso (e potersi macchiare di ketchup e giocare a rugby).

Età di lettura consigliata: dai 12 anni.

Recensione tratta dal sito Le letture di Biblioragazzi a cura di Caterina Ramonda.