LA LETTERATURA DELL’INESPERIENZA. SCRIVERE ROMANZI AL TEMPO DELLA TELEVISIONE. Antonio Scurati. Bompiani, 2006

La recensione di questo libro è tratta da uno splendido articolo di Emilio Varrà comparso sul numero 18 di Hamelin, (rivista che non ci stancheremo mai di consigliare) che si intitola Insegnare l’esperienza, note pedagogiche su un saggio di Antonio Scurati. Dell’articolo sono riportati solo i passaggi più significativi: rimandiamo alla rivista (a disposizione in libreria) per la lettura del testo integrale.

“(…) Qualche mese fa è uscito invece per Bompiani La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, un agile pamphlet che non vuole avere la solidità e l’approfondimento di un saggio ma che pure pone al lettore questioni interessanti.
L’assunto iniziale muove dal confronto con la generazione di scrittori emersi dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale e della Resistenza di cui Calvino viene preso come portavoce. Sono proprio sue le parole, quelle celebri a presentazione dell’edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno, ad essere esplicitamente citate: “Quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale […] ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria […]. Questo ci tocca oggi, soprattutto [ripensando a quei tempi]: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre riflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico …”.
Di fronte a questa tensione, che era allo stesso tempo consapevolezza di una dura eredità da raccontare e desiderio di rinnovamento, Scurati dichiara l’assoluta distanza di sé e della sua generazione di scrittori, con un misto di rassegnazione, lucidità, scoramento.
(…)
E se il problema della generazione del dopoguerra era essenzialmente formale, ovvero in quale modo dare espressione ad un contenuto che era nella memoria di tutti, ora la situazione è capovolta ed è proprio l’oggetto della narrazione ad essere sfuggente. L’unica via d’uscita sarebbe allora accettare la nuova condizione e fare i conti con questo vuoto: “L’inesperienza, questo è il nostro stato di povertà di oggi, da cui siamo chiamati a fare letteratura”.

Questo dell’esperienza, di avere ben presente una materia per il proprio discorso, in grado anche di farsi di per sé strumento di comunicazione, mi sembra un tema centrale anche in ambito pedagogico, al di là delle riflessioni prettamente letterarie di Scurati.
L’impressione, infatti, è che la scuola e l’università, ma anche tutte le altre istituzioni con funzione pedagogica, fatichino sempre di più ad individuare gli obiettivi primari e i contenuti di base del proprio insegnamento. SI tratta, per procedere con il parallelismo letterario, di un “vuoto di contenuto”, che non nasce dall’assenza ma dalla difficoltà di distinguere davvero cosa è necessario trasmettere alle nuove generazioni.
(…)
Questa condizione storica di crisi è fortemente aggravata da due altri elementi fondamentali: il ruolo sociale dell’insegnante e lo statuto di conoscenza di cui si fa garante. E’ ormai banale riscontrare la perdita di significato simbolico e reale del mondo scolastico nella realtà contemporanea. Anche questo, come il mondo della letteratura, ha subito una sorta di “frattura con il pubblico”, la perdita di un orizzonte di valori unificante e coerente in cui la collettività possa riflettersi. E quando si giustifica questa perdita con la considerazione che la società offre oggi tante altre occasioni formative, mi sembra che si pecchi essenzialmente di ipocrisia. In realtà viviamo in un contesto sociale che ha radicalmente rinunciato a farsi responsabile della crescita dei più giovani, cercando con essi una forma di dialogo più semplice e strumentale, quello che passa per i desideri e i consumi.
(…)
La sensazione è che si sia rotta la catena generazionale per cui chi è venuto prima ha sempre qualcosa di utile da insegnare alle generazioni successive, in un processo di continua eredità. La mitizzazione ipocrita del futuro, l’ideologia del “next”, lo sviluppo tecnologico e il suo impatto sociale, la maggiore agilità delle nuove generazioni nel vivere queste trasformazioni, sono tutti elementi che portano a una profonda crisi. In questo senso è di nuovo interessante Scurati quando riflette sulla “fine dell’umanesimo”: “L’umanesimo era la pretesa, smisurata, salvifica, che, tutto sommato, l’eredità lasciata all’uomo dall’uomo non fosse pari a niente. Era il rifiuto ostinato di accettare l’inanità dell’essere umano nel tempo. Era il tentativo di stabilire una comunione di vita tra i vivi e i morti. E persino tra i vivi, i morti, e i non ancora nati. Per uno scrittore mi sembra che si tratti di un’ipotesi irrinunciabile.”
(…)
E’ la struttura stessa dell’esperienza a venire meno, perché sono scomparsi i due elementi che la connotano: il senso della durata e la percezione del vissuto. Non esiste esperienza che in qualche modo non preveda un processo, un prolungamento nel tempo e che, per diventare davvero acquisita, non abbia bisogno di un ripensamento, di una rinarrazione, perché solo dopo che è stata raccontata, anche a noi stessi, essa diventa pienamente consapevole.
(…)
Mi limito qui a segnalare due elementi su cui a mio avviso bisognerebbe riflettere. Uno è proprio la necessità di un’educazione alla durata, al tempo lungo, al senso della sospensione e dell’attesa a cui le nuove generazioni sono sempre più inadeguate, abituate a una temporalità puntiforme, fatta di istanti e non di segmenti. In questo senso la pratica della lettura, silenziosa o ad alta voce, diventa utilissima non solo nell’ambito di una educazione umanistica, ma per la formazione della persona.
(…)
E allora penso al secondo degli elementi che ho preannunciato: il senso di autenticità. L’allenatore sportivo conquista la fiducia degli allievi solo se dimostra per primo di saper fare le cose che insegna. E’ la sua esperienza che giustifica il suo essere lì, con quella funzione.
(…)
Il “saper fare” può diventare la risorsa ultima per conquistare quella “fiducia del pubblico” che altrimenti sembra irrimediabilmente persa. E diventa anche una sorta di chiave magica per rimettere insieme la concatenazione del tempo. L’abilità dimostrata infatti non può che essere agli occhi dei più giovani il frutto di una storia passata che giustifica l’essere presente dell’insegnante in quel momento e la sua aspirazione a un progetto futuro. (…)